PATUZZI RIGO & PARTNERS

IL PATTO DI NON CONCORRENZA

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Nell’attuale scenario economico assistiamo sempre più frequentemente a situazioni in cui le aziende si trovano continuamente in competizione tra loro. Questa concorrenza può portare al rischio di perdere dipendenti altamente qualificati, competenti e con un vasto bagaglio di conoscenze. In queste circostanze i datori di lavoro si trovano di fronte ad una preoccupazione legittima: cosa farà il dipendente una volta lasciata la mia azienda? Potrà portare via con sé clienti, informazioni, dati sensibili?

Una soluzione a questo problema è la stipula di un patto di non concorrenza con il dipendente. Si tratta di un accordo utile per fornire una serie di garanzie e limiti che possono aiutare a proteggere gli interessi dell’azienda proprio per prevenire la possibile sottrazione di dati aziendali, conoscenze sensibili e la perdita di clienti.

La stipula del patto di non concorrenza consente alle aziende di tutelare e proteggere i propri interessi mantenendo un certo grado di controllo sui dipendenti anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro. Il medesimo controllo è garantito ex lege, in costanza di rapporto di lavoro, dall’art. 2105 c.c.[1] il quale stabilisce il divieto per il lavoratore di trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con il datore di lavoro. Quindi, durante il rapporto di lavoro, il dipendente ha l’obbligo imposto dalla legge di tenere un comportamento leale nei confronti dell’imprenditore da ricondurre alle generali regole di correttezza e buona fede.

È importante notare che l’obbligo di fedeltà, e quindi il divieto di concorrenza, di cui all’art. 2105 c.c. cessa con la risoluzione del contratto di lavoro, qualsiasi ne sia il motivo[2]. Dopo tale momento il lavoratore potrà utilizzare tutte le conoscenze acquisite durante il suo impiego a meno che non sia stato sottoscritto un patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c.[3]. Quest’ultima norma contiene la disciplina del patto specificando i requisiti chiave che devono essere soddisfatti per garantirne la validità.

Il legislatore ha stabilito, prevedendo la sanzione della nullità con effetto retroattivo (ex tunc) in caso di violazione, che il divieto di attività successive alla risoluzione del rapporto di lavoro debba essere contenuto entro limiti determinati di oggetto, di tempo e di luogo. Questi limiti sono posti al fine di bilanciare e tutelare gli interessi contrapposti sia del datore di lavoro che del lavoratore. Da un lato, si sottolinea la necessità del datore di lavoro di proteggere il patrimonio aziendale, mentre dall’altro lato è parimenti necessario garantire che il lavoratore non subisca limitazioni eccessive per le sue future opportunità di impiego, compromettendo la possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita[4].

Il primo requisito essenziale che un patto di non concorrenza deve soddisfare, ex art. 2125 c.c., è la forma scritta. Infatti, tale patto può essere stipulato in qualsiasi momento del rapporto lavorativo ma la condizione fondamentale è che sia concordato per iscritto.

Inoltre, come già accennato, il legislatore ha stabilito una serie di limiti, confini, che il patto di non concorrenza deve osservare in termini di oggetto, tempo e luogo.

In particolare, è pacifico che la mansione, oggetto del patto, debba essere dettagliatamente specificata. Si tratta di una indicazione che non può risultare eccessivamente generica[5] ma che deve essere direttamente correlata all’attività che potenzialmente concorrerebbe con quella del datore di lavoro.

La durata del patto di non concorrenza non può superare i cinque anni se riguarda dirigenti, mentre è limitata a tre anni per tutti gli altri casi. Qualora fosse prevista una durata più lunga, essa viene automaticamente ridotta entro i suddetti limiti. La previsione di un limite temporale è di fondamentale importanza poiché ha lo scopo di impedire che il lavoratore sia limitato per un periodo eccessivamente lungo nella ricerca di una nuova opportunità di impiego.

Inoltre, è essenziale circoscrivere il patto ad una determinata area geografica. Questo vincolo è posto per gli stessi motivi menzionati in merito al limite temporale, quindi per evitare di porre eccessive restrizioni al lavoratore.

Il requisito previsto nell’art. 2125 c.c. e che richiede un’analisi più approfondita è il corrispettivo. Questo rappresenta il compenso erogato a favore del lavoratore in cambio dell’impegno di non intraprendere attività concorrenziali. L’art. 2125 c.c. si limita a prevedere semplicemente la presenza di un corrispettivo, senza specificarne le caratteristiche costitutive come, ad esempio, se debba essere equo o congruo[6].

Il patto di non concorrenza è considerato nullo in caso di pattuizione di un compenso simbolico o manifestamente sproporzionato al sacrificio richiesto al lavoratore.

A rigor di logica, il corrispettivo dovrebbe corrispondere al potenziale danno subito dal lavoratore che non potrà svolgere una determinata attività per un determinato periodo di tempo in una determinata zona geografica. Ne deduciamo che in base ai limiti stabiliti per oggetto, tempo e luogo il corrispettivo dovrebbe necessariamente cambiare.

Per la quantificazione del corrispettivo si potrebbe fare riferimento all’art. 1346 c.c. che stabilisce i requisiti del contratto. Questi requisiti potrebbero essere presi come riferimento per la determinazione del corrispettivo del patto di non concorrenza che, quindi, dovrebbe essere possibile, lecito, determinato o determinabile.

Inoltre, sempre per quanto riguarda la quantificazione del corrispettivo, la Cassazione[7] ha fornito alcuni criteri chiave per stabilirne il quantum. Tali criteri si rivelano fondamentali per la determinazione del corrispettivo e per garantire la totale validità del patto di non concorrenza.

Innanzitutto, il corrispettivo si caratterizza per la determinabilità basata su dati oggettivi. Ciò significa che non dovrebbe essere arbitrario o soggetto ad interpretazioni ambigue. La sua valutazione dovrebbe fondarsi su parametri oggettivi e verificabili, evitando, così, ogni tipo di incertezza.

Inoltre, il corrispettivo si caratterizza anche per la congruità: non deve essere né iniquo né sproporzionato. La Suprema Corte ha stabilito che il criterio di congruità sia da ricondurre alla proporzionalità rispetto al sacrificio del lavoratore per la perdita di capacità di guadagno subita con l’astensione dallo svolgimento di un’attività concorrente.

In conclusione, il corrispettivo dovrebbe costituire un compenso adeguato a risarcire la limitazione imposta al lavoratore. Pertanto, dovrebbe essere in linea con le effettive perdite economiche subite conseguentemente alla stipula del patto di non concorrenza.

In relazione al corrispettivo, inoltre, sussiste un dubbio applicativo al quale, ad oggi, non è stata fornita una risposta univoca: il corrispettivo deve essere erogato in un’unica soluzione alla fine del rapporto lavorativo oppure può essere corrisposto mensilmente durante il periodo di lavoro? La giurisprudenza non appare concorde su questo aspetto.

Alcuni tribunali di primo grado[8] hanno stabilito che il corrispettivo dei patti di non concorrenza pagato mensilmente potrebbe mancare del requisito della determinabilità. Ad esempio, se il patto di non concorrenza prevede il pagamento mensile di 200 € potrebbe risultare difficile stabilire se il corrispettivo sia effettivamente determinato o determinabile, dato che non si ha certezza della durata del rapporto di lavoro e quindi della durata del pagamento mensile dei 200 €.

La Cassazione, su tale questione, ha emesso dei pareri contrastanti[9].

Dottrina e giurisprudenza, invece, sono concordi in merito ad un ulteriore aspetto del corrispettivo e cioè nell’affermare che debba essere assoggettato a contribuzione[10]. Per quanto riguarda il regime fiscale da applicare, invece, si possono distinguere due casi: se il corrispettivo viene erogato durante il corso del rapporto di lavoro è da assoggettare a tassazione ordinaria; se il pagamento avviene alla cessazione del rapporto di lavoro è da assoggettare a tassazione separata.

Un ulteriore aspetto di particolare rilevanza del patto di non concorrenza riguarda le conseguenze di una sua violazione. All’interno dello stesso patto si prevede una clausola penale insieme alla possibilità di restituire l’eventuale corrispettivo già erogato. È importante notare che la Corte di cassazione ha stabilito che l’importo da restituire deve corrispondere al netto e non al lordo[11]. In altre parole, si procede al rimborso solo di quanto è effettivamente entrato nel patrimonio disponibile del dipendente.

La clausola penale, che costituisce un risarcimento forfettizzato, se ritenuto iniquo, potrebbe essere soggetta a revisione da parte del giudice. Tuttavia, è fondamentale sottolineare che il giudice ha il potere solo di ridurre l’importo della penale, ma non può annullarla completamente. La previsione di una clausola penale risolve anzitempo il problema della quantificazione del danno, stabilendolo in anticipo.

È probabile, inoltre, che il dipendente, oltre all’importo previsto dalla clausola penale, potrebbe essere chiamato a risarcire all’azienda qualsiasi ulteriore danno che possa aver cagionato.

Infine, è importante tenere presente che, in caso di dichiarazione di nullità del patto di non concorrenza posto in violazione dei requisiti ex art. 2125 c.c., si verificano le seguenti conseguenze:

  1. il dipendente, dopo la cessazione del rapporto di lavoro, è libero di intraprendere qualsiasi attività concorrente desideri;
  2. il dipendente è tenuto a restituire l’intero importo ricevuto in virtù del patto di non concorrenza[12];
  3. il giudice potrebbe stabilire che il corrispettivo precedentemente pagato debba essere considerato parte integrante della retribuzione del dipendente incidendo potenzialmente al calcolo degli istituti di retribuzione differita.

In conclusione, possiamo affermare l’importanza strategica del patto di non concorrenza che, in un mercato sempre più competitivo, al fine di proteggere gli interessi aziendali, impone al dipendente a non impegnarsi in attività concorrenziali e a non sfruttare informazioni riservate dopo aver lasciato l’azienda.

Dalla nostra analisi emerge l’importanza di redigere accordi di questo tipo in conformità alla normativa che lo disciplina[13]. È evidente che, talvolta, la normativa di riferimento presenta dei vuoti interpretativi, mentre le decisioni della giurisprudenza, a volte discordanti nei diversi gradi di giudizio, non sempre offrono una chiara e definitiva linea nell’interpretazione dei requisiti che il patto debba soddisfare.

[1] Art. 2105 c.c.: “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.”

[2] Sia in caso di dimissioni che di licenziamento.

[3] Art. 2125 c.c.: “Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.

La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura indicata dal comma precedente.”

[4] La restrizione imposta ad un cittadino italiano di svolgere un’attività lavorativa deve essere costantemente contemperata con il diritto al lavoro (art. 4 Cost.) ed alla retribuzione equa e sufficiente (art. 36 Cost.). Stante ogni individuo ha il diritto di garantirsi un sostentamento economico e ciò implica che le limitazioni allo svolgimento di un’attività lavorativa non possano essere assolute.

[5] Ad esempio, l’indicazione della mansione “impiegato amministrativo” è eccessivamente riduttiva. È necessario dettagliare le attività svolte.

[6] Anche se simili indicazioni fossero presenti nell’articolo 2125 c.c., sorgerebbero comunque dubbi interpretativi riguardo alla definizione precisa di “equo e congruo”.

[7] Cass., Sez. lav., 1° marzo 2021, n. 5540 e Cass., Sez. lav., 11 novembre 2022, n. 33424.

[8] Trib. Modena 23 maggio 2019 e Trib. Milano 26 maggio 2021, n. 1189.

[9] V. sentenza 5540/2021.

[10] A tal proposito risulta particolarmente interessate la lettura della sentenza della Cassazione 16489/2009. Nel caso trattato il lavoratore che aveva ricevuto il corrispettivo relativo al patto di non concorrenza richiedeva la condanna dell’INPS a tener conto, in sede di liquidazione del proprio trattamento di pensione, della contribuzione, effettivamente versata, relativamente al corrispettivo erogato all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, a titolo di compenso per il patto di non concorrenza. L’INPS sosteneva che, data la struttura e la funzione autonome del patto di non concorrenza di cui all’art. 2125 c.c., rispetto al contratto di lavoro subordinato a cui succede, il relativo compenso non poteva essere qualificato come retribuzione imponibile ai fini contributivi. La Suprema Cassazione aveva stabilito l’assoggettamento alla contribuzione previdenziale del corrispettivo del patto di non concorrenza, in quanto in caso contrario il lavoratore sarebbe stato penalizzato ai fini pensionistici.

[11] V. sentenza 735/2018.

[12] Come già specificato in merito al risarcimento da parte del dipendente in caso di violazione del patto, l’importo da restituire è al netto delle trattenute contributive e fiscali.

[13] Il riferimento è essenzialmente all’art. 2125 c.c.